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Gay & Bisex

035 RENDEZ-VOUS


di CUMCONTROL
03.12.2024    |    2.873    |    1 4.8
"Fatto sta che non vedendo niente nel buco del cacaturo mi giunse sulla chiappa destra una folata di aria fredda..."
Concordammo l’incontro.
Egli mi diede la chiave della lavanderia, in segreto, con l’avvertenza che avrei dovuto immediatamente restituirla il giorno dopo, altrimenti avremmo entrambi subito la vendetta di mio suocero. Con quella chiave, nel pieno della notte, sarei dunque sceso in silenzio fino alla lavanderia. Avrei quindi attraversato l’ambiente e aperto la porticina di servizio che dava sul retro, e così avrei dovuto raggiungere la costruzione di legno in mezzo al bosco.

Così feci. Mi vestii all’una precisa. Presi con me il fagotto e scesi cautamente, cercando di muovermi adagio così che la servitù, mia moglie o mio suocero, non potessero udire il crepitio delle assi della scala di servizio. La scala scendeva fin verso la lavanderia. Quando aprii la porta di servizio, una sferzata di vento gelido mi lasciò senza fiato. In Ungheria, nella regione del Transdanubio, per chi la conoscesse, l’inverno è funesto e soffia un vento gelido che viene da Est, ed è come se uno sciame di spilli ti si conficcasse sul volto.

Ma ero eccitato. Sono sicuro che se mi fossi piantato un’arancia intera su per il culo io non avrei avuto alcun tipo di attrito anale. Il mio culo l’avrebbe inglobata a sé senza troppi perché, tanto io stavo eccitato all’idea che un cazzo, un gran bel cazzo finalmente tutto mio, m’avrebbe finalmente chiavato da lì a breve.
Mi diressi dunque per il sentiero che s’inoltrava nel buio fitto del bosco. Tra i robusti tronchi di larice, la raffica si attenuava di buon grado, ma dal terreno saliva il gelo delle foglie morte ed io mi sentii così infreddolito che faticai nella mia avanzata.

Scesi per la radura, a mezzo versante della collina, e sulla proda erbosa la Luna velava di bianco il fogliame. Le foglie stridevano a ogni mio passo.
Avanzavo, e in quel biancore, indovinai la massa scura della casupola che stava ai margini della proda. Avanzai veloce. Dalle finestre si diffondeva luce aranciata di promettenti candele. Si, lui era là. Lui mi attendeva impaziente con il cazzo in mano, pronto a farmi sanguinare il retto.
Quando vi entrai, lo vidi disteso in un angolo, sulla paglia, seminudo, con la camicia aperta sul petto e incurante del freddo. Non aveva il cazzo in mano. No. Aveva il suo calzone dei giorni prima ma la flebile luce delle candele risaltava il gustoso involtino di carne che dormiva tra le cosce.

Lui mi fissava e si sfiorava il pacco. Rimasi commosso a guardarlo. Lui mi sorrideva. Prima di mettermi disteso con lui, sotto la coperta di madras, volli guardarmi un pochettino attorno. La casupola era davvero piccina ma accogliente. Su di un lato vi era un asse, con due candeline accese ai lati. L’asse poteva essere una panca non più lunga di un paio di metri, con tre larghi fori allineati e da cui fuoriusciva un lieve odore di fogna. Insomma, il luogo del nostro incontro fu il cacaturo.
Il cacaturo, sorta di pubblica latrina, era una costruzione di basso legname che mio suocero volle far costruire nel mezzo del bosco perché i suoi boscaioli la smettessero di cacare all’aperto.

Mio suocero richiedeva la manovalanza ungherese per tenere in piedi la sua grande tenuta. Ma fondamentalmente li disprezzava questi ungheresi, proprio per la loro proverbiale indisciplina. Ecco che il cacaturo fu dunque un’imposizione di civiltà, atterrata sulla riva erbosa della collina per volontà di mio suocero.
Ad ogni modo deposi il mio fagotto sulla paglia. Conteneva del pane bianco cui i manovali del luogo andavano matti. Una vera prelibatezza per loro, costretti dall’indigenza a cibarsi di pane di crusca. Egli si fiondò sul fagotto e iniziò a divorare una pagnotta. Io rabbrividii nel vederlo così vorace.

La cosa mi eccitava e m’inteneriva al tempo stesso. Quando fu sazio, si riadagiò pago sulla paglia calda ed io, infreddolito, mi liberai dei calzoni e delle mie mutandine per trovare ristoro sul suo corpo. Quindi mi tuffai sul suo petto, ed egli mi abbracciò con sentimento direi, che io, sospettai in lui una certa urgenza di carezze, anteposta al desiderio di spampanarmi il culo. La cosa non mi offese per nulla, per quanto io avessi un desiderio sfrenato di cazzo che mi divorava da dentro.
Ma al mio culo ci sarebbe arrivato con calma. D’altronde, la notte sarebbe stata lunga e tutta per noi.

Quindi mi lasciai baciare teneramente e tardai nell’approccio della porca, nonostante la mia urgenza suina fosse di minchia. Ma anch’io mi diedi da fare in tenerezze, facendomi bimbo per lui, tenero, ed egli volle così baciarmi. Mi lasciai baciare nonostante la puzza dell’alito pestilenziale di aglio, cipolla, scalogno e sgombro in scatola, ma poi mi misi di buona lena a massaggiargli il cazzo con la mia manina. Quando fummo sotto le coperte, volli leccargli il petto vigoroso e poi scesi nell’incavo dell’ombelico, per levargli via con la lingua un po’ di lanuggine fetente. Quando fui nei pressi del suo cappellone lo annusai prima d’imboccarmelo. L’assoluta assenza di una molesta emanazione da culo, o di fregna, mi fece pensare che il ragazzone non avesse una compagnia abitudinaria per ammazzare la noia. Quindi, se i miei calcoli fossero stati giusti, quel ragazzone desiderava quanto me la comunione carnale.

La minchia che succhiai con devozione rimandava nel gusto alle fatiche del giorno. Vi era un sapor di carne, con una pennellata di sudaticcio ma gradevole, in particolare presso le creste del glande. Era circonciso al naturale, e dunque mi risparmiò la formaggia in scaglia. La minchia poi mi pareva come dire… mi pareva aromatizzata da pisciatine sparse di giorno un po’ controvento. Avrei inoltre sottoscritto ogni assenza di formaggia caprina, segno che il ragazzone, tutto sommato, seguisse una corretta igiene della minchia nonostante il freddo.

Lui però mi cacava il cazzo perché m’invitava, con una certa insistenza, a raggiungere le sue labbra. Io certamente all’inizio lo baciavo ma poi mi feci cocciuta, e diedi a intendere che mi interessava esclusivamente il cazzo visto che da settimane, mesi direi, ne ero sprovvista. Lui capì, quando non risposi più ai suoi romantici solleciti, e mi dedicai esclusivamente ad assaporare il cazzo. Mi feci tenace quando dal cazzo passai ai testicoli, ottimi cocomeri gonfi e promettenti, e poi ancora più giù. Si, lo ammetto, desideravo leccargli il culo. Lui lo capì, ed è per questo che si voltò non senza un’autentica reticenza. Si dispose di pancia contro la paglia, inarcò la schiena e protese le natiche porgendole alla mia lussuria.

Mi misi a banchettare tra i glutei sudaticci e li dilatai così bene per tuffarmici dentro. Avevo l’acquolina a mille. Un velo di sudaticcio mi mandò in botta. Leccavo sfrenatamente quella sua porta proibita, ma assicuro che non seppi indovinare cosa avesse mangiato a cena la sera prima, tanto voglio dire mi stava pulito lì dietro.
Poi però si capì presto che quel maschiaccio non era fatto per soggiacere oltremodo prostrandosi di culo ai favori della lingua altrui. Si voltò, mi ripose il cazzo in bocca e sebbene io volessi ancora per un poco deliziarmi del suo culo, mi fu impedito con estrema ingratitudine.

Sentii le cartilagini della mia mandibola cedere allo stantuffo imperioso del mio ragazzone e la sua cappella, turgida e trasudante, mi si affacciava in cima all’esofago scampanellandomi l’ugola come in un giorno di festa. Mi adagiai io a mia volta sul giaciglio di fieno e paglia ed egli mi sormontò la faccia così che me la potesse scopare per bene fino allo sbrocco. Io allungavo le mani su quel torso possente, e le mie dita si dispiegarono sul petto per poi ricongiungersi lungo la sua schiena. Gli afferrai le natiche poderose e le compressi a me perché potesse spingermi fino in fondo.

Si che sentii dentro di me il salaticcio di un precum gustoso con cui volentieri ci avrei condito l’insalata. Si vedeva proprio che anche lui desiderasse ficcare a cazzo dentro la bocca umida del frocio. Io ero in affanno, desideravo farlo godere di più ficcandogli un dito su per il culo, ma lui, incorruttibile, vero maschio, mi negò il gesto, e depose la mia mano sul suo fianco perché tenessi il ritmo delle spinte.
Stavo impazzendo, vedevo il torace dell’uomo levarsi fino al cielo, con il suo ventre teso, svettante, e due robusti pettorali diramati fino alle spalle. Le sue braccia ricadevano pesanti su di me.

Stavo così eccitata che smaniavo. Mi sentivo il buco dell’ano così aperto e vorace che implorava di essere sfasciato. Ma poi io, presa da una furibonda voglia, lo scaraventai via e guadagnai la posa spingendolo sulla paglia. Quindi lo cavalcai come una vera amazzone ingrifata e afferrandogli il cazzo lo puntai dritto sul buco che lo ingoiò letteralmente. Non c’erano più Cristi né Santi. Io mi movevo su di lui da sentirmi in corsa nell’affanno di un ippodromo. Svettai le braccia in avanti sentendomi libera e bella, poi piegai i gomiti e raggomiitlai le mie mani attorno alla mia nuca. Oh se avessi avuto due tette le avrei viste balzare di gioia, oh e se avessi i avuto capelli sciolti, voluttuosi, freschi di messa in piega mi sarei sentita una sciantosa tutta vanitosa.

Ero libera e completamente impalata. Eccheccazzo me ne fotteva più ‘na fava di avere una moglie. Io non la volevo quella là.
Ero io La Femmina, La Indiscussa, non quella nana demnerda che in quei giorni si faceva bella per me. Seh, le nozze. Ma che andasse a cacare. Io ripudiavo mia moglie ancor prima delle nozze. Io odiavo quella donna, io odiavo tutte le donne perché solo io ero La Degna.
Io ero la degna, la bella, abbellissima proprio.
Io su di lui, su questo meraviglioso ragazzone con la minchia di carne, io ero femmina. Mi agitavo allegra e strillante col mio pisellino inutile che sobbalzava. Io ero pazza. Pazza di lui.

Si che in un momento di sballo, mi stappai di scatto. Scorreggiai nella stappata così subitanea. E no bello. Mo’ l’hai voluta tu. Lo afferrai per la mano e lo costrinsi ad alzarsi con me. Egli si alzò, mi stava dietro ed io senza pensarci buttai la mia faccia in un buco del cacaturo. Avevo bisogno di essere maltrattata. Ergo mi inginocchiai tenendo saldamente la testa in fondo al buco del cacaturo e sniffando le cacate dei boscaioli strillai al mio uomo di spappolarmi. Ero impazziata. Urlavo, strillavo, sbraitavo selvaggiamente….
Mo’ non so. Non so se furono le mie urla o cosa. Fatto sta che non vedendo niente nel buco del cacaturo mi giunse sulla chiappa destra una folata di aria fredda.

Dio chiudete la porta. Ma non lo vedete che stiamo a ….
No scusa?
Cavai fuori dal buco la mia faccia e….
M’.
M...
Mia moglie?!
Scusi???!
Mia moglie?!

Vidi mia moglie che stava sull’uscio, impalata e perplessa, con la sottana e con una candela in mano.
Dietro di lei apparve mia cognata, la sorella nana di mia moglie, nana pure quella.
No vabbè.
La mia futura mogliettina strillò nel cuore della notte e corse via come una pazza.
Mia cognata invece, la seguiva con lo sguardo andare via, poi guardava me.
Mi fissò con espressione cruda, esaltata, patibolare.
Alzò il gomito, e con l’indice e il medio della mano, segnò una linea retta sotto il mento.

Fece scivolare le due dita dritte così, recise. .

Capii allora che i cazzi d’un tratto s’erano fatti per me assai amari.







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Questo racconto è tratto dalla saga
HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.

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